Moderne estetiche neobarocche. E la scena, un non luogo senza tempo e senza testo, diventa un laboratorio digitale
Andrea Bisicchia, «Lo Spettacoliere».
Esiste, ormai un canone, per il nuovo teatro, che non appartiene soltanto al teatro performativo, ma anche al teatro di tradizione, ed è basato sul diverso rapporto che si è venuto a instaurare con lo spazio scenico, con gli strumenti tecnologici, impensabili fino a un ventennio fa, con gli stimoli sensoriali che ne sono succeduti, con l’invenzione di scenografie che non si limitano a descrivere, ma ad esprimere, con le video proiezioni e con gli apparati sonori.
Questo canone ha trasformato la forma dello spettacolo, tanto da costruire dei palinsesti all’interno del palcoscenico, dove viene rappresentato un testo che non appartiene alla scrittura, ma alla memoria che viene utilizzata per drammatizzare un processo che è avvenuto dentro di noi e che, in alcuni casi, appartiene all’autobiografia artistica. È come se la multimedialità avesse preso il sopravvento su una idea di spettacolarità che sembra appartenere a un lontano passato.
Si nota una moderna estetica neobarocca, dietro questa trasformazione, basata sulla ricerca dello stupore e della meraviglia, conseguenza di una teatralità che ha abbandonato i testi scritti, sostituiti da video-mapping, da interaction design e persino dall’intelligenza artificiale. Si è andato oltre i teorici antesignani, come Shechner o Lehman, per accedere alle ‘meraviglie’ di Lepage, alle contaminazioni di Anagoor, di Studio Azzurro, di Instabili Vaganti.
Il critico, pertanto, non è più chiamato a interpretare il pensiero, la filosofia di un testo, quanto quello di una drammaturgia digitale.
Ho ritenuto necessario questo preambolo per poter parlare dell’esperienza condotta da Instabili Vaganti che è anche frutto della loro maniera di intendere la scrittura scenica, ben presente nel volume The Global City, pubblicato da Cue Press, che contiene il testo e la drammaturgia di Nicola Pianzola, le note di regia di Anna Dora Dorno, oltre agli scritti di Simona Maria Frigerio ed Enrico Piergiacomi.
The Global City che, nella forma dello spettacolo, aveva debuttato nell’ottobre del 2019 presso la Sala Mercato del Teatro Nazionale di Genova, voluto dall’allora direttore Angelo Pastore, oggi è diventato un libro, il cui testo è stato il pretesto per la creazione di una messinscena, rispetto al quale, grazie alla regia della Dorno, è apparsa del tutto autonoma.
L’argomento, molto sintetico, ha per protagonista un emarginato che cerca di sopravvivere facendo mestieri diversi, tra i quali, quello di un venditore ambulante di ricordi.
La struttura è costituita da un prologo, da dieci trasfigurazioni e da un epilogo, Pianzola e Dorno hanno sostituito la parola ‘scena’ con ‘trasfigurazione’, proprio per evidenziare subito la loro scelta che, pur partendo da una realtà sociale, quella delle grandi metropoli, questa realtà viene semplicemente trasfigurata. Le megalopoli sono quelle di alcune città messicane, coreane, indiane, dove i due artisti hanno trovato lunghe ‘residenze’, i cui luoghi emergono grazie a un abile uso delle immagini e delle video proiezioni, ma, soprattutto, al modo particolare con il quale vengono miscelati i vari linguaggi, sia visivi che sonori, mentre il lavoro della regia si concentra sul corpo dell’attore-performer che occupa il palcoscenico interagendo con le immagini proiettate, con gli oggetti e con i costumi coloratissimi, dove non manca l’uso del microfono.
La struttura drammaturgica ha una sua complessità dal punto di vista scenico, essendo immersa in un ‘non luogo’, ma anche in un ‘non tempo’, trattandosi di un tempo infinito, senza lancette, durante il quale, prendono vita i frammenti della memoria e della narrazione.